di Luciano Pignataro
Oggi taglio il traguardo dei 50 anni e vi regalo una di quelle schede da tenere segrete e non rivelare a nessuno, se non agli amici capaci di raggiungere il giusto equilibrio psicopapilloso. Come quello realizzato nel cuore di Berardino Lombardo che da chef antropologo è diventato agricoltore e allevatore: con la moglie Antonietta ha realizzato questo agriturismo mozzafiato tra i castagneti del vulcano spento di Rocccamonfina dove nascono la Ferrarelle e la Lete, proprio ai confini tra il Lazio e la Campania. Insieme fondarono la Caveja a Pitravairano adottando una formula semplice e tosta. In quella ex stalla ristrutturata in pietra e legno si mangiavano i piatti classici della tradizione contadina ricostruiti filologicamente, fantastico il pomodorino arrecanato, condito con briciole di pane, olio, e origano, una vera ricetta salvavita. Un po’ come Alfonso, il carattere introverso è lo stesso, gli interessi di Berardino sono scivolati progressivamente dalla cucina all’agricoltura, dai piatti ai prodotti, l’ossessione della materia prima nasce dagli scontri con i fornitori e dal rifiuto del comodo franchaising in cui spesso la tipicità del territorio è sacrificata alla qualità dell’offerta. Così, nel corso degli anni, Berardino e la moglie Antonietta hanno acquistato quaranta ettari di terra fertile sabbiosa e nera e, lento pede, si sono trasferiti su in montagna lasciando definitivamente la Caveja nel 2004. Una rottura che è stata una sorta di liberazione dai punteggi e dal circo mediatico, il ritrovarsi una azienda agricola dove lavorare mele annurche, pere, aglianicone (qui chiamato uva da scasso) e primitivo di Conca, maialino nero casertano, vacche marchigiane, una decina di ettari di bosco. Una piscina, un patìo per mangiare all’aperto sono le uniche concessioni modernizzanti, poi l’accettazione di gruppi solo per prenotazione, possibilmente di gente conosciuta o presentata da amici secondo l’antica regola del passa parola che in campagna ha sempre funzionato molto bene prima dell’arrivo delle guide specializzate. Ma l’equilibrio interiore in realtà oltre che dalla campagna coltivata come un giardino è dato dalla struttura, semplici mattoni in tufo e legno, arredata con gusto e stile, arricchita da mobili antichi e imponenti, un camino dalle dimensioni medioevali, quattro stanze e salone arredati in ogni particolare come solo la mano femminile è capace, le collezioni di merletti e pizzi esposte alla curiosità, la cucina ben attrezzata, una piccola bottiglieria all’ingresso dove sono esposti anche alcuni prodotti, niente tv per evitare di produrre immondizia nella testa, il plastico silenzio delle montagne da cornice. Qui fanno base Fabio Rizzari e Giampaolo Gravina quando devono degustare per l’Espresso in Campania, è la sosta preferita di Luigi Cremona e Lorenza Vitale, anche Daniel Thomases trascinato da Teodoro Naddeo ritrova gusto in questo posto. A questo punto parlare dei piatti può sembrare risibile, si mangia quello che prima si cucinava nelle case e che è diventato molto raro: olte i pomodorini citati, una fresca insalata di carote e peperoni, la pizza rustica con i fiorilli (fiori di zucca), la parmigiana di melanzane assolutamente dolce, le mafalde con caciocavallo e melenzane tanto per fare la citazione del giorno, ma è uno dei 365 episodi in onda nel corso di un anno. Si viene qui si può lavorare la terra o fare corsi di cucina ritemprandosi secondo una formula di ospitalità rurale ormai diffusa ma rara da trovare a questo livello di perfezione tecnica. Per chi arriva dal Nord, è il primo squillo della rivoluzione campana di questi ultimi quindici anni, uno spiazzamento totale dei luoghi comuni, la rivelazione immediata della biodiversità e soprattutto della forza imponente dei sapori della tradizione agricola del territorio italiano più forte per composizione del terreno, clima e storia. Non a caso qui è nata la cucina italiana. Anche se la visita a Berardino, occhi azzurri verdi sanniti come i Longobardi da cui ha preso il cognome, spinge ad una riflessione obbligata ai giovani impegnati nei ristoranti: ragazzi, più tradizione se volete davvero stupire, prendete esempio dalla banda di Cetara dove la rivisitazione riguarda soprattutto la presentazione e la ricerca più che i barocchismi, oppure dall’Oasis dove le ricette sono per certi versi filologiche. In giro ci sono troppo risotti per i miei gusti, andateli a fare al Nord, qui il riso significa solo sartù e arancini, stop. Altrimenti capita che nessuno si ricorda più i vostri piatti cinque minuti dopo aver lasciato il ristorante mentre i pomodorini di Berardino, come il Vesuvio di Alfonso o la genovese di tonno, uno se li ricorda tutta la vita. Ma forse solo chi conosce davvero i prodotti non riesce a tradirli. Scuola di cucina a Conca, mezzo secolo centrato.